Il millenario problema della relazione corpo-mente.
Se c'è una cosa che non deve sfuggire alla scienza è la misura delle cose. Misura in senso concreto, materiale, fisico. Ciò che non è misurabile non può essere oggetto di sapere scientifico. Su questo punto tutti non possono che essere d'accordo: la scienza inizia dove gli oggetti possono essere misurati, ma anche finisce dove le cose non possono essere misurate.
Auguste Comte (1798-1857), fondatore del movimento positivista, affermava che delle stelle non si potrà mai dire nulla dal punto di vista scientifico, perchè bisognerebbe andare in cielo, prenderne campioni e studiarli in laboratorio. Se concettualmente tale idea non è confutabile e di fatto rimane la base della ricerca scientifica, tuttavia presenta un limite immenso, che ridurrebbe la vita dello scienziato ad una semplice talpa che scava nella terra.
Invece l'uomo di scienza è come se non riuscisse a far altro che passare dalla misura al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea alla misura: c'è sempre un passaggio metafisico quando l'uomo passa dalla materia al pensiero, c'è sempre un'astrazione, un rifarsi al mondo delle idee. E così accadde ad uno dei primi astrofisici quando comprese che se le stelle esistevano, in qualche modo potevano anche essere studiate nella loro materialità pur senza averne un campione sotto mano da analizzare. Il padre
Angelo Secchi (1818-1878), gesuita, fondatore della Società degli Spettroscopisti Italiani (l'attuale Società Astronomica Italiana), intuì come lo spettro della luce stellare potesse essere analizzato e studiato dandoci informazioni proprio sulla composizione dei corpi celesti così distanti da noi.
La Terra, così vicina ai nostri sensi, potrebbe essere paragonata al corpo; il suo studio sembra più agevole, più diretto, più vero, più certo, più oggettivo. I Cieli, infiniti e misteriosi, potrebbero essere paragonati alla mente, così difficili, profondi, sfuggenti, illusivi, compositi, eterei, sconfinati, sorprendenti, ineffabili. La Terra la calpestiamo tutti i giorni, ci dona sostegno, appoggio. Chiedete a un bimbo dov'è la Terra e batterà i piedi, la prenderà in mano, ve la mostrerà; chiedete invece ad un bimbo dov'è il Cielo e non potrà far altro che puntare un dito all'insù, verso l'infinito, verso l'inafferrabile. Chiedete ad un medico dov'è il corpo, penserà che siete matti; chiedete allo stesso medico dov'è la mente, difficilmente vi saprà rispondere.
Potrebbe dirvi che la mente è nel corpo, in tutta la sua estensione; oppure che è nel cervello, soprattutto nella corteccia; oppure che è la totalità dell'encefalo con tutte le sue diramazioni; o, sconfinando dalla sua materia, che la mente è solo energia (ma nessuno è mai stato in grado di misurare questa forma di energia); che la mente sappiamo che c'è ma non dove sia; che la mente è l'estensione del corpo, compresi i movimenti; o, sempre sconfinando dalla sua disciplina, potrà parlarvi di magnetismo, di flussi energetici, di forze vitali, di spirito, di anima, di forze ancestrali, di connessioni energetiche, di movimento vitale o molte altre concezioni.
Cos'è dunque la mente? Dove si trova? È un concetto nuovo oppure era già stato conosciuto e sviluppato dai nostri antenati? Certamente coloro che ci hanno preceduto si sono imbattuti in questo stesso problema; al di là di tutti i tentativi recenti (e meno recenti) di raccogliere in una visione scientifica unificante i nostri dati immediati della coscienza, le nostre esperienze e i nostri vissuti, siamo ancora ben lontani da una sintesi olistica esauriente.
Per quanto riguarda i termini (mente, anima, corpo, soma, spirito, intelletto, ragione, psiche, ecc...), si potrebbero scrivere interi trattati sia per ciò che concerne l'etimologia che la semantica. Tuttavia bisogna domandarsi quanto ció sarebbe utile nella comprensione della realtà mente-corpo. Spesso ci scordiamo che è l'uomo a dare i nomi alle cose e non sono i nomi a dare significato alle cose. Cambiando un nome non cambiamo la realtà delle cose e, vicersa, le cose sono al di là dei nomi che diamo loro. Tuttavia è molto curioso vedere come alcune concezioni ricorrano nella storia e in epoche molto diverse.
Ippocrate, il padre della medicina, affermava che tutto ció che noi viviamo, gioie e dolori, emozioni, pensieri, idee, rabbia, amore, ecc... sono tutte il frutto del lavoro del cervello. Circa 2500 anni dopo
Francis Crick (1916-2004) in diversi scritti su mente, anima e cervello (ad esempio "La scienza e l'anima. Un'ipotesi sulla coscienza") si esprime quasi letteralmente alla stessa maniera, potremmo dire fondando sul cervello ogni significato della nostra vita: la mente è il cervello, il cervello è la mente.
Ma si può davvero dire che noi siamo il nostro cervello? Mettendo da parte le implicazioni etiche di tale affermazione, possiamo dire comunque che noi coincidiamo con il nostro cervello? Oppure che tutto nell'organismo lavora per mantenere in vita semplicemente il cervello?
Il cervello: organo privilegiato?
Certamente il pensiero rimane la più grande capacità di cui è dotato l'essere umano: porsi a riflettere sui problemi, elaborare soluzioni creative alle difficoltà della vita, la capacità di astrarre ed elaborare teorie, fino ad arrivare alla capacità di amare (ossia rinunciare consapevolmente ad un interesse personale per un bene maggiore) sono caratteristiche straordinarie di cui siamo dotati. Tutto sembra racchiuso in una parte relativamente piccola dell'organismo, la scatola cranica, disposta all'estremità superiore del nostro corpo, e contenente il cervello, organo della mente.
Il cervello, per quanto rivestito da un robusto involucro osseo, pare collocato in una zona particolarmente vulnerabile: traumi, cadute, accelerazioni violente, strozzamento, colpi di sole, problemi di afflusso di ossigeno (essendo collocato in alto è il primo organo a risentire degli abbassamenti di pressione sanguigna) sono tutti rischi che gravano sul cervello a causa della sua posizione. In particolare, l'abbassamento della pressione arteriosa si manifesta precocemente a livello cerebrale: pochissimi istanti di scarsa/assente perfusione ematica cerebrale comportano la perdita di coscienza con caduta a terra della persona. Il cadere a terra, se da un lato agisce come meccanismo di difesa utile ad aumentare il ritorno di sangue al cervello, dall’altro lato pone l’individuo a rischio di traumi, contusioni e lesioni, specialmente proprio al capo che, come peso morto, può battere a terra con violenza.
Inoltre, il cervello si trova, sì, protetto dalla scatola cranica, ma il vantaggio prodotto dalla durezza di tale rivestimento osseo, tutt’altro che flessibile e dinamico (eccetto che nell’età infantile), produce anche conseguenze sfavorevoli: essendo rigido, ogni minimo aumento di volume del tessuto cerebrale, del liquido cefalorachidiano, delle strutture meningee produce un aumento della pressione intracranica con rischio di danno al parenchima cerebrale stesso. Allo stesso modo, ogni aumento di pressione all’interno del cranio (da cause vascolari, ad esempio) non può essere compensato da aumenti di volume cosicché si ripercuoterà ancora sul parenchima cerebrale.
Pensiamo poi al collo, una regione particolarmente vulnerabile; tutte le informazioni che dal cervello devono essere trasmesse alla periferia, e viceversa, passano attraverso questa fragile struttura di interconnessione tra centro e periferia. In un'ottica evolutiva è come se l’essere umano si fosse sviluppato a rischio e pericolo del cervello pur di dare all'organismo la miglior capacità funzionale: poter ruotare il capo in tutte le direzioni, vedere il più lontano possibile, ridurre al minimo la lunghezza delle vie sensoriali (vista, udito, gusto e olfatto).
Quindi, se il cervello si trova collocato così perifericamente, in alto, a rischio di subire molti danni, non può essere evolutivamente migliore degli altri organi, più nobile, più importante. Anch’esso è apparentemente subordinato allo scopo di giovare a tutto l’essere umano. Ogni organo, compreso il cervello, è in funzione dell’intero essere umano.
Il cervello così non sembrerebbe un organo particolarmente privilegiato: Dio (per i credenti finalistici) e/o effetti deterministici di varie cause hanno posto il cervello alla pari degli altri organi, in funzione di un tutto che è l’individuo. Come tutti gli organi, il suo collocamento naturale ha pro e contro, vantaggi e svantaggi che sembrano essere stati sapientemente ponderati per il bene complessivo della persona.
Breve digressione sull’attuale materialismo psichico
Il grande rilievo che si dà al cervello pare abbia origini molteplici, che almeno in parte sono legate al connubio tra l’impostazione filosofica occidentale, storicamente molto legata all’esaltazione delle capacità speculative, razionali e relazionali dell’uomo, con le attuali tendenze scientifiche materialistiche e agnostiche, che nel cervello hanno posto il fondamento di tali facoltà.
Se ci guardiamo indietro possiamo vedere che ogni epoca ha avuto il suo organo privilegiato per spiegare le grandezze e le bassezze dell’uomo, i nobili sentimenti e quelli ignobili, la bontà e la cattiveria, la genialità e la stupidità, le gioie e i dolori.
Il fegato, organo che nessuno oggi si sentirebbe di chiamare direttamente in causa nell’origine delle emozioni, in passato è stato uno degli organi a cui venivano attribuiti stati psichici come la depressione (ancora oggi è in uso il termine malinconia che deriva dal latino
melancholia, eccesso di secrezione biliare nera nel sangue, umore nero). Non dobbiamo scordarci che la stessa parola “umore” deriva proprio da umido, liquido; i liquidi presenti nell’organismo che, se combinati in modo sbilanciato, producono malattie, angoscia, tristezza o pericolose eccitazioni. Quindi il fegato, producendo la bile (vari tipi di bile), uno dei principali umori conosciuti in passato, era considerato organo chiave per spiegare l’origine degli stati d’animo.
Altro organo, tutto al femminile, preso in causa per millenni nelle debolezze dei nervi (nevrosi, blocchi emotivi, paralisi funzionali vere e proprie ma anche tristezza e insoddisfazione) è l’utero. Nella concezione ippocratica seguita per molti secoli si credeva che tale organo avesse capacità di migrare nell’organismo andando ad irritare altri organi compromettendo così gli equilibri della persona.
Il cuore ancora oggi rimane simbolo potente e insuperato di sentimenti, emozioni, passioni, vitalità, angustie (crepacuore), ferite interiori. Dal cuore, storicamente, originano i sentimenti, dal cervello invece la ragione.
Anche la milza è stata considerata un organo di fondamentale importanza nella regolazione dell’umore; l’afflizione di milza era sinonimo di cattivo umore, di irritabilità fino all’aggressività.
Gli esempi potrebbero essere ancora molti; talvolta fanno sorridere, talaltra aprono a considerazioni straordinarie e attuali. Ad esempio il “crepacuore” (sindrome di tako-tsubo) esiste realmente a seguito di esperienze drammatiche, soprattutto lutti. Inoltre, come ricordato nel primo paragrafo di questa sezione (Introduzione), già Ippocrate, o meglio qualche scuola ippocratica, aveva definito proprio il cervello sede delle emozioni, dei pensieri, di gioie, dolori, ecc…con grande anticipazione dei nostri tempi. Cartesio aveva posto la sede stessa dell’anima (e quindi delle facoltà superiori) nell’epifisi (ghiandola pineale), piccola struttura nel cuore dell’encefalo.
Note conclusive
Il desiderio di poter ricondurre fenomeni complessi, quali sono gli stati mentali e le loro interazioni col corpo, ad un unico responsabile, magari da poter manipolare e ordinare come il timone di una nave per dirigere tutta l’esperienza emotiva ed esistenziale della persona, è stato, continua ad essere e forse sarà ancora per molto tempo, il dramma della visione scientifica di stampo neopositivista e utilitarista. Facendo leva sul concetto archetipico di “panacea” che illude da secoli l’umanità, la scienza moderna continua ad inseguire il mito della pillola dell’eterna giovinezza, piuttosto che aprirsi alla difficoltà di interagire con l’esperienza reale delle persone, uniche e irripetibili.
La complessità dell’essere umano difficilmente può ridursi alla finitezza dei metodi propri delle scienze naturali le quali hanno il compito di definire ciò che è misurabile.
Quando parliamo di emozioni, di vissuti, già esuliamo dal concetto di misurabilità; non dobbiamo confondere quantità e qualità. Se la gioia può essere di diversa entità, rimane comunque un’entità soggettiva, confrontabile solo ad un livello che trascende i righelli e le scale, appunto il livello umano.
Se la scienza rimane aperta alla dimensione non misurabile, allora potrà essere d’aiuto agli esseri umani.