Editoriale - Marzo 2013

L’obolo dei farmaci

 

 Cos’è un farmaco? Etimologicamente ha radici antiche. La parola greca pharmakon da cui è derivato il pharmacum latino ha un significato ambivalente che sta sia per cura o rimedio sia per veleno. Farmaco è un nome composto da due termini egiziani: fahre, che sta per veleno, e mak che sta per cura. Quindi un farmaco è un veleno capace di curare.

 

 

Spesso nella storia della medicina emerge che l’attività del farmaco (buona o cattiva) fosse solo questione di dosaggi: se giusti si hanno dei benefici, se eccessivi si hanno dei danni. In questo senso qualsiasi cosa (alimenti, bevande, abitudini, comportamenti, ecc…) può essere un farmaco. Il concetto antico del farmaco ci riporta alla prospettiva umana della medicina, spesso tacciata dopo il positivismo di ignoranza e superstizione. Ossia il farmaco, veleno correttamente somministrato, doveva essere prescritto (e quindi non più proscritto come al sano) ad una persona malata da una persona esperta e competente in quella malattia. La base relazionale era fondamentale e contribuiva alla guarigione del paziente.

 

Oggi l’industria farmaceutica che sottostà alla ricerca scientifica (sia in medicina tradizionale che alternativa) tende a screditare tali effetti benefici come “effetto placebo”. Questo può avere un effetto nocivo sulla formazione accademica degli operatori sanitari, medici in primis, perché vengono portati a svalutare il ruolo cardine della relazione medico-paziente a favore della “potenza” del farmaco. Ciò che conta diventa avere un farmaco potente e il paziente diventa un semplice oggetto da trattare.

Certo, anche molti pazienti, in maniera più o meno conscia, desiderano solo una pillola, una bustina o una puntura che possa rimetterli in sesto cercando di evitare di fare un passo al di là della chimica delle cellule.

 

Alla fin fine, l’idea di essere solo delle macchine accarezza sempre i nostri istinti di de-responsabilizzazione. Ma, guardate un po’, rimaniamo comunque delle macchine speciali che sanno vedere la storia e, prima o poi, riconoscere errori e virtù degli uomini di ieri e di oggi.

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